LE STELLE BRILLANO ANCHE IN SUDAFRICA (racconto edito)

12.08.2014 23:32

Il rombo improvviso del motore colse la donna di sorpresa, riportandola di colpo al mondo degli oggetti concreti. La sua mente, fuggita dalla realtà manifesta, fu risucchiata nell’angusto e stracolmo scomparto aereo nel quale sedeva scomodamente. La pressione repentina per la spinta del velivolo che accelerava per decollare, la inchiodò per tutta la traiettoria della pista allo schienale. Le parve persino di percepire un leggero scricchiolio nella sua colonna vertebrale, ma si convinse che si trattava solo del nervosismo per il volo; era l’attrito dei suoi denti per il timore di chissà quale sciagura.

Da quanto tempo non prendeva un aereo? Saranno passati almeno vent’anni, concluse la donna fra sé e sé, dall’epoca del fatto che la strappò a un’esistenza ordinaria alla quale si era votata e che allora le sembrava ormai immutabile: casa, scuola, amiche, affitti, imposte, giardino, spesa, cane… Pensò anche a come aveva trascorso quegli ultimi vent’anni. Come poteva riassumere quel periodo? In una parola: solitudine. Oppure tristezza, smarrimento, angoscia. Ma ora tutto era cambiato, nel giro di poche ore. Sentiva un’altra volta il sangue che le scorreva nelle vene, pulsare con bella vitalità, fremere in attesa di ristabilire i legami col passato. Si apriva un varco del tutto inatteso…

La telefonata l’aveva alquanto sconvolta e, all’inizio, aveva di nuovo creduto a qualche stupido impostore che – come molti altri – aveva chiamato per approfittare della sua condizione, con frasi angoscianti del tipo “Io so dove si trova sua figlia, ho avuto una visione…”, “Lei non sa chi sono io, ma le assicuro che Dio mi ha parlato e mi ha indicato la via…”, “Le garantisco, mia signora, che sua figlia si trova nel casolare di N., dietro al cimitero…”. Tuttavia, questa volta sentiva che era diverso, che si trattava di qualcosa di nuovo.

Il telefono aveva squillato verso le diciannove e quaranta.

– Signora Klauser?

– Sì, chi parla?

– Il mio nome è Häusermann. Polizia federale.

– Sì? – tremò la voce della signora Klauser.

– Mi scusi se la disturbo a quest’ora. Abbiamo un’informazione importante da riferirle riguardo a sua figlia.

La signora Klauser vacillò per un istante, poi parlò a fatica strascicando le parole.

– Sono vent’anni che mia figlia è scomparsa senza lasciare traccia. Per l’esattezza diciotto anni, tre mesi e ventitrè giorni. Mi volete lasciare in pace, per favore? Quello che è stato, ormai è stato…

L’ufficiale della Polizia federale se ne restò in ossequioso silenzio, rincuorato dal fatto che alla fine la donna non aveva riattaccato. Allora riprese, con voce calda:

– Signora Klauser, abbiamo seri motivi di credere che sua figlia sia stata ritrovata sana e salva proprio quest’oggi dall’Interpol britannica a Città del Capo, in Sudafrica. Pare che la donna abbia ammesso di essere Martha Klauser, d’origine svizzero-tedesca. Corrispondono pure i segni particolari sul braccio destro e sulla fronte che a suo tempo lei ci aveva fornito.

– A suo tempo… – commentò stancamente la donna, con sarcasmo nella voce. – Sono più di cinque anni che non ho notizie dalla Polizia federale di Berna…

– Come detto, ci sono stati degli sviluppi imprevisti e improvvisi…

La madre, presa da un palpitare incontrollabile, questa volta non riuscì a replicare alle parole dell’ufficiale di polizia. Nel silenzio che si andava prolungando, il signor Häusermann s’introdusse con un tocco gentile e intenerito.

– Si faccia coraggio, signora Klauser. L’aspetta un lungo viaggio.

La donna sembrò spaesata.

– Come sarebbe a dire, un viaggio?

Le parve strano di sentir utilizzare il tempo presente per parlare di sua figlia. Finora si era semplicemente affidata ad un passato sempre più remoto, ricordandola da piccolina. “Quando andavamo sempre a…”, “Mi ricordo quando piangeva continuamente per…”, “Penso spesso al primo giorno che frequentò…”, “Fu sempre sorridente e mai la vidi…”, “Il giorno che accadde… allora fui…”. Il cuore palpitava con vigore nel petto. Ora poteva persino azzardarsi ad utilizzare il tempo futuro? “Quando la rivedrò, allora…”, “Quando saremo di nuovo insieme…”. Ma tali virtualità si infransero subito contro il muro del sospetto. Non può essere vero, pensò. Non può essere accaduto veramente. La mia piccola bambina, per qualche strano tiro del destino, viene ritrovata dopo diciotto anni di assoluto vuoto in una città dell’estremo sud del mondo, tanto lontano dal luogo della sua scomparsa. Com’è possibile?

– Come appena riferito, sua figlia si troverebbe a Città del Capo e avrebbe pure espresso il desiderio di non voler più tornare in Svizzera, per ragioni che in questo momento ignoriamo. – Seguì una breve pausa. – Prepari velocemente una valigia, signora Klauser. Le abbiamo prenotato un volo per mezzanotte e trenta, direzione Sudafrica. Domani mattina, verso le dieci, con una probabilità quasi assoluta potrà di nuovo riabbracciare sua figlia.

Detto ciò, aveva gentilmente riattaccato.

“Potrà riabbracciare sua figlia”. Questa frase le aveva occupato tutta la mente. Quante volte aveva sognato ad occhi aperti di poter riabbracciare la sua bambina in quei diciotto anni, tre mesi e ventitrè giorni? Aveva immaginato di stringerla al petto e sciogliersi in pianto per la gioia. Avrebbe ringraziato il buon Dio per averle concesso di ritornare a vivere. Avrebbe poi dedicato il resto della sua esistenza ad aiutare i bisognosi in segno di gratitudine…

Ed ora si trovava lì, scomodamente seduta in una poltroncina di seconda classe su un volo intercontinentale, stracolmo di passeggeri spensierati che si recavano in Sudafrica per chissà quali motivi, per soddisfare chissà quali impuri desideri o chissà quali torbide esigenze professionali. Provò rabbia per quei passeggeri spensierati, ma poi si ricordò per quale ragione stesse viaggiando e le si riscaldò il cuore. In fondo, anche loro avevano il diritto di godere della vita come chiunque altro.

Nel turbinare di questi nuovi pensieri, si rilassò e si addormentò quasi subito. Sognò di essere stata avvisata dalla Polizia federale di Berna che sua figlia era stata ritrovata in un remoto paesino dell’Africa sub-sahariana e che sarebbe dovuta partire all’istante. Imbarcata in fretta e furia su di un aereo pericolante – tanto da far venire i brividi solo a guardarlo –, si era ritrovata in una bufera di neve e ghiaccio che faceva scricchiolare sinistramente le ali del velivolo. Poi l’imprevisto: una frattura in un boccaporto e la caduta repentina dell’aereo… Precipitarono a grande velocità. Nella confusione totale i passeggeri gridavano e cadevano sul pavimento del corridoio o sopra i sedili, gli uni contro gli altri, finché il velivolo si schiantò in un deserto di sabbia grigiastra. Nonostante la violenza del crash, sopravvissero quasi tutti grazie all’angolazione favorevole con cui era avvenuto l’impatto con le dune morbide. La donna si ritrovò su di una roccia preistorica a osservare in lontananza. Tutt’attorno il nulla, fuorché montagne di sabbia. Erano perduti per sempre. Non avrebbe mai più rivisto né la Svizzera né l’Europa, né tantomeno sua figlia.

Si svegliò di colpo con un gemito soffocato. Graziose hostess di pelle nera stavano servendo il pasto, ma lei, presa ancora dai freddi sudori dovuti a quell’incubo, si accontentò di bere una coca-cola e di sgranocchiare un cracker. Non era così semplice superare il vuoto di una ventina d’anni lasciato dopo la sparizione da quell’unica figlia. Non si poteva riempire il baratro coi soli propositi di speranza e fede, di riconciliazione.

Quando Martha scomparve senza lasciare traccia, la sera del 5 agosto 19…, era poco più di una bambina. Aveva undici anni. Riccioli castani, gote e labbra rosee, costituzione esile e carattere festante. Chi avrebbe trovato ora, la madre? Una donna di una trentina d’anni. Matura, rotondetta come lei, e in forze? Oppure una povera creatura pestata dalle avversità della vita? Già, come aveva trascorso, Martha, quei due decenni di esistenza in Africa? La madre rabbrividì. Cosa poteva esserle accaduto? Chi poteva aver incontrato? Quali storie da raccontare? E se non avesse voluto dire nulla? Magari non avrebbe nemmeno potuto. Il trauma, le violenze, la mancata elaborazione del dolore, avrebbero potuto schiacciarla come una mosca. Non l’avrebbe tollerato. E allora come si sarebbe comportata?

Immaginava il loro incontro all’aeroporto di Città del Capo. Avrebbe ritirato la valigia e si sarebbe incamminata come un’ombra per i corridoi luminosi dell’aeroporto, fino agli Arrivals e lì, annusando l’aria, chiudendo gli occhi e filtrando le urla e gli schiamazzi dei passeggeri e dei loro parenti euforici, avrebbe cercato di captare il tenero richiamo della figlia:

– Mamma, sono qui.

Per lei sarebbe stato sufficiente. Avrebbe riconosciuto la sua voce in mezzo a mille altre, a dispetto dell’età adulta. Le sarebbe corsa incontro, abbandonando la valigia, e l’avrebbe abbracciata, ricoprendola di baci.

– Sono qui, mamma. Ce l’abbiamo fatta.

Poi, ci sarebbe stato solo il vuoto. L’aeroporto sarebbe stato risucchiato dallo spazio e dal tempo. Unico ed esclusivo: solo loro sarebbero esistite in quel momento. Solo il loro sentimento reciproco. Un nodo finalmente riallacciato.

– Ti porto a casa, piccola, – avrebbe allora detto la madre con dolcezza, e si sarebbero subito imbarcate per la Svizzera, verso casa.

Ma ora si ricordava che la figlia aveva espresso il desiderio di restarsene in Sudafrica. Per quale ragione? Che cosa l’aveva spinta a rinnegare la propria patria d’origine? Era di certo stata suggestionata da qualcuno… Un amore? Ma chi, in questo caso? Chi l’aveva trascinata in quelle terre remote e dimenticate da Dio? Era stata apprezzata o umiliata in tutto quel tempo? Lasciò che i suoi pensieri fluissero e riempissero quel vuoto inquieto. Poi fu colta da un pensiero triste. E se la figlia non l’avesse riconosciuta?

– È proprio lei, mia madre? – le avrebbe forse potuto dire.

No, non poteva andare in quel modo. Si ricordò infine di una sera estiva, poco tempo prima della sua scomparsa, quando il padre stava ancora con loro. La figlia le aveva chiesto, prima di addormentarsi in giardino tra le sue braccia, perché le stelle del cielo brillassero tanto. E la madre aveva risposto che per ogni stella che brilla in cielo ci sono dei genitori che amano i propri figli sopra ogni altra cosa. Con la rievocazione di quell’aneddoto, ne era certa, la figlia quasi trentenne avrebbe capito: capito che si trattava di sua madre, capito che il suo amore verso di lei non era mutato nel tempo.

Il filo dei suoi pensieri fu spezzato all’improvviso dal citofono del comandante di volo, il quale annunciava che l’atterraggio era imminente. Si udirono scatti metallici di cinture di sicurezza che si agganciavano e sospiri concitati di passeggeri. Dai finestrini s’intravedeva l’altopiano e le casupole diroccate e ammassate tutt’attorno alla pista. La signora Klauser strinse i braccioli del sedile con tutte le sue forze e pregò a più riprese quello che poteva sembrare un’Ave Maria. Un tonfo pesante e l’aereo già stava scivolando sull’asfalto rigato di cicatrici nere; un rombo di motori e il frastuono dei freni e dell’aria che rallentava per attrito la corsa del velivolo fino quasi a fermarsi.

– Benvenuti a Capetown, – disse una voce ronzante al citofono, mentre l’aereo si stava dirigendo pesantemente verso l’aeroporto. – Auguriamo ai signori passeggeri un piacevole soggiorno!

I passeggeri applaudirono e, quando il velivolo fu fermo, slacciarono le cinture di sicurezza e si alzarono in piedi a cercare le loro borse e valigette da viaggio. Anche la signora Klauser si alzò, ma si sentì insicura sulle gambe e si risedette subito al proprio posto. Chissà se si vedevano le stelle brillare anche in Sudafrica…

COPYRIGHT GERRY MOTTIS, TRATTO DA: "OLTRE IL CONFINE E ALTRI RACCONTI", DADÒ EDITORE, LOCARNO 2011.

GERRY MOTTIS

RIVERA (TI) - SVIZZERA

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